Pubblichiamo la prima parte dell’intervento di LabMonza al convegno di sabato 27 ottobre “Affrontare i tempi dell’odio – Brianza Rise Up” sul tema della sicurezza in città e dell’insicurezza percepita.
Di fronte a forze politiche che strumentalizzano e fomentano paura e odio, per ideare risposte efficaci ci sembra fondamentale indagare i meccanismi psicologici e i sentimenti sui quali si poggia la propaganda delle destre estreme, nonché individuare quali siano i loro primi canali. Per questo motivo, abbiamo sentito la necessità di approfondire il legame tra informazione, distorsione della realtà e senso di insicurezza, come premessa indispensabile per l’azione futura.
Nella convinzione che una politica sana si fondi da una parte sul dato reale, dall’altra sulla dignità, sull’empatia e sul rispetto nei confronti degli esseri umani. Abusare del linguaggio, strumentalizzare persone, distorcere fatti, sfruttare i sentimenti per costruire la propria fortuna politica non rientra e non rientrerà mai nel nostro orizzonte morale.
La paura è il sentimento atavico dell’insicurezza e del sentore di morte, d’anticipazione di un attacco che sentiamo imminente: un sentimento che scatena pulsioni e reazioni irrazionali talvolta incontrollabili, fisiologiche/biologiche ed emotive: vorremmo scappare, vorremo allontanare il più possibile da noi ciò che avvertiamo come minaccioso.
La paura restringe il campo dell’attenzione e la capacità di razionalizzare informazioni e azioni. Ci si sente drammaticamente soli e inermi, impotenti di fronte alla minaccia. Soffriamo, somatizziamo lo stress: la paura logora mentalmente e fisicamente.
Per quanto immotivata e per quanto sia spesso preponderante la componente irrazionale, anche la paura contiene al suo interno un certo grado di fondatezza, di certezza, si potrebbe dire di “informazione” intesa in senso ampio, previamente acquisita, che ci fornisce un motivo di per sé più che razionale e legittimo di temere per la nostra integrità.
In un esperimento condotto nel 1973, gli psicologi Gibbs, Young e Smith posero in una gabbia un gatto e un topo, separati da un vetro trasparente. Il gatto non aveva modo di raggiungere il topo; non costituiva, dunque, una minaccia concreta. Si trattava piuttosto una minaccia virtuale, non reale. Nonostante ciò, la sola visione prolungata del gatto portò il topo a tali livelli di allerta e di stress da farlo ammalare. [J. Gibbs, R. C. Young, G. O. Smith, Cholecystokinin decreased food intake in rats, in Physiological Psychology, LXXXIC, 488, 1973; citato in P. Pancheri, Stress, emozioni, malattia. Introduzione alla medicina psicosomatica, Mondadori, 1979].
Il gatto è per il topo il nemico naturale, è il predatore che attenta alla sua vita, racchiude in sé tutto il male possibile. Date simili premesse, vere o false che siano, il topo ha, per parte sua, tutte le ragioni per temere il gatto.
A livello elementare, le nostre reazioni emotive e fisiologiche di fronte alla minaccia non sono troppo diverse da quelle del roditore. Ma per l’uomo, la cui percezione di integrità si estende ben oltre il proprio corpo ed è dotato di capacità d’astrazione sconosciute agli altri animali, il gatto non dev’essere, effettivamente reale e presente per suscitare sentimenti di risposta violenti: a partire da pochi elementi, il nemico può essere costruito.
Come si costruisce il nemico? Attraverso gli stereotipi e i pregiudizi, e attraverso un sillogismo che riduca a un costrutto estremamente negativo tutti i membri di un gruppo umano, facendo dell’eccezione peggiore una regola. Il pregiudizio presuppone una stereotipizzazione dell’individuo, uno schiacciamento del singolo in una categoria semplicistica e connotata negativamente.
Ma cosa intendiamo esattamente con pregiudizio? Il pregiudizio si definisce come “idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore”. [Definizione Treccani < http://www.treccani.it/vocabolario/pregiudizio/ >]
Il pregiudizio si definisce come “idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore”
Si fonda quindi su un’informazione previamente acquisita non dalla realtà dei fatti, ma da un canale altro rispetto all’esperienza in prima persona. E’ una forma di conoscenza mediata.
E, per l’appunto, i primi costruttori di stereotipi sono i mass-media.
I media hanno il potere di costruire, pezzo per pezzo, il gatto nella gabbia.
A tal proposito, è interessante notare come i media adottino spesso una prospettiva che si potrebbe definire “lombrosiana” nella rappresentazione del criminale. Quelle che erano per Lombroso le anomalie del cranio, i tratti del viso, i presunti segni morfologici del reo, identificato come soggetto diverso, portatore di una “anormalità” che lo distaccava dal resto della popolazione, sono ora a-normalità e segni distintivi d’altro tipo. La diversità può essere etnica, sociale, culturale, religiosa, psicologica, ma è sempre e comunque dipinta come “patologica” e come naturalmente, intrinsecamente votata alla violenza e alla perversione.
Peraltro, la personificazione del crimine, ovvero l’identificazione di un singolo come incarnazione del crimine, spinge i membri di una comunità a una tremenda conclusione: eliminato dalla società l’individuo, o gli individui, ossia l’elemento anomalo e pericoloso, si elimina la radice del male – sia che si tratti di un’eliminazione effettiva, sia che di reclusione o di semplice allontanamento dalla vista.
In questo senso, l’esaltazione del “decoro urbano” e la politica del presidio altro non sono che una cura estetica e locale, o, tornando al nostro topo, una bella tenda davanti al gatto. Non agiscono in alcun modo sui fattori sociali della delinquenza, né la prevengono quando sarebbe intelligente farlo.
Come si diceva, i media hanno il potere di costruire, pezzo per pezzo, il profilo del gatto nella gabbia, o – ed è quello a cui più spesso si assiste – di cucirne l’immagine su qualcuno. Per di più, per le leggi del mercato dell’informazione, sono costretti a farlo.
I media hanno il potere di costruire, pezzo per pezzo, il profilo del gatto nella gabbia, o di cucirne l’immagine su qualcuno.
Il mondo dei media costituisce quella che Bourdieu descrive come una “gabbia cognitiva”, una “passiva reclusione mentale” che anestetizza il pensiero critico e rinforza la credenza: nel momento in cui si è davanti ad un mezzo di comunicazione elettronica, si è inseriti in un contesto che restringe e congela la nostra rappresentazione della realtà. [La televisione del crimine. Atti del Convegno «La rappresentazione televisiva del crimine» di G. Forti, M. Bertolino (a cura di), Vita e Pensiero, 2004, p. XVII]
La gabbia cognitiva ha varie sbarre, ma a noi ne interessano due:
- La prima sbarra è data dal rapporto tra emozioni e informazioni. Ogni secondo trascorso davanti a un programma è prezioso per il canale che lo ospita, ogni click su un link mantiene in vita i siti internet. Immagini attraenti, titoli impressionanti, attirano il fruitore. Non è dunque l’informazione fondata ad essere privilegiata, ma quella più eclatante.
- La seconda è quella del luogo comune. Ai media conviene assecondare il luogo comune piuttosto che contraddirlo o confutarlo. Nel mercato dei media, trasmettere qualcosa che rimetta in discussione convinzioni diffuse difficilmente conviene, perché l’utente predilige sempre il programma con cui si sente in linea. Più conveniente è confermare e anzi rafforzare il luogo comune, un sostrato di conoscenze collettivamente accettate come vere che ci fanno paradossalmente sentire sicuri, persino quando ci dicono che dobbiamo sentirci più insicuri. E’ ciò che instilla in noi la sicurezza di avere cognizione e consapevolezza di ciò che ci circonda, tanto più nella condizione di doversi preparare a imminenti pericoli.
Le due sbarre, a cui si aggiungono i meccanismi degli algoritmi dei siti social e dei motori di ricerca, ci costringono in uno spazio informativo chiuso e distorto, di cui riceviamo sistematicamente conferme eclatanti, emotivamente impressionanti. E’ così che la paura è diventata una parte centrale della nostra cultura comunicativa e della nostra vita quotidiana. E’ qui l’origine del divario crescente fra il rischio percepito e rischio reale. Siamo una «società del rischio», e quello dei media è il sistema in cui fabbrichiamo incertezza e in cui cerchiamo al contempo delle risposte.
Quanto detto è tanto più vero per l’Italia, che soffre di una mispercezione della realtà enorme rispetto agli altri Paesi.
Esemplare è il gap tra dati e percezione rispetto all’immigrazione. I cittadini europei sovrastimano nettamente la percentuale di immigrati presenti nei loro paesi: di fronte al 7,2% di immigrati non-UE presenti “realmente” negli Stati europei, gli intervistati ne stimano mediamente il 16,7%.
Ma il dato che riguarda l’Italia è quello più significativo: gli intervistati italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco in punti percentuali tra la percentuale di immigrati non europei realmente presenti in Italia, circa del 7%, e quella percepita, pari al 25%.
Non c’è da stupirsi.
Stando a uno studio dell’Associazione Carta di Roma, in tutto il 2017, sono stati solo 43 i giorni in cui i principali quotidiani nazionali non hanno riportato in prima pagina un titolo sull’immigrazione e i tg hanno parlato del tema 3713 volte in prima serata. Per il 40%, si è trattato di notizie sulla gestione degli arrivi: di fronte a un simile bombardamento, è quasi difficile biasimare chi crede nell’invasione.
E’ poi evidentissimo lo squilibrio nel racconto della criminalità: il numero di crimini commessi da immigrati è ampiamente sovrarappresentato, mentre sottorappresentati sono quelli perpetrati da italiani.
In compenso, le violenze sugli immigrati di prima e di seconda generazione passano perlopiù sotto silenzio, e, a proposito di silenzio, immigrati, migranti e profughi hanno voce solo nel 7% dei servizi sui flussi. Pochissimo, se si pensa che, sul complessivo di tutti i servizi, inclusi quelli non riferiti al fenomeno migratorio, sono presenti in voce nello 0,5% dei casi.
Non c’è bisogno d’altro: ecco creato il gatto nella nostra personalissima gabbia cognitiva.
Arianna Bettin, Filippo Villa
Per approfondire:
https://www.francoangeli.it/Area_RivistePDF/getArticolo.ashx?idArticolo=61046
Dati e numeri reali dell’immigrazione nel 2018 nel nuovo Dossier Statistico Immigrazione