Monza è una città nella quale il dibattito sull’antifascismo è sempre stato aspro, sin dalle contestazioni da parte di ANPI e forze antifasciste nei confronti del sindaco Mariani per aver messo sullo stesso piano partigiani e camice nere. Questo tipo di revisionismo è stato consolidato negli anni da finanziamenti alle sedicenti associazioni di memoria dell’esodo giuliano. Oggi la situazione è nettamente peggiorata, sia per una vulgata internazionale che ha spostato l’asse politico verso destra, sia per un radicamento delle realtà neofasciste nel territorio che ad oggi ricevono aiuti e patrocini dal Comune nonostante la loro chiara appartenenza.
Questo spostamento politico interroga le realtà antifasciste e le dovrebbe spingere ad una riflessione su comunicazione e pratiche introdotte per promuovere il valore dell’antifascismo. Occorre ripensare le nostre pratiche per riuscire a negare spazi e visibilità a tutta la galassia neofascista, che spesso utilizza onlus e l’associazionismo come maschera per nascondere i suoi movimenti. Occorre inoltre porre una critica radicale e comprensibile a tutta la cittadinanza.
Non va dimenticato poi come i discorsi neofascisti attecchiscano principalmente laddove la criminalità si insinua nelle pieghe della società. Il sistema è impregnato di violenza strutturale. Sono violenza le discriminazioni, la precarietà lavorativa, lo sfruttamento, i tagli ai servizi pubblici in un’ottica liberista del profitto. Di questa logica di violenza che si autogenera si nutre la criminalità organizzata, orientata al profitto e al dominio senza remore. Subire violenza porta alla normalizzazione dell’abnorme, la violenza come cifra quotidiana disallena la capacità di riconoscere e reagire al sopruso e lo integra nella propria esistenza come dato inespugnabile. In mancanza di un’alternativa che esca dalle dinamiche violente della società, trovano adesione teorie e ideali politici che di quella violenza si nutrono.
È dunque bene ricordare che essere antifascisti è essere partigiani, nell’accezione gramsciana.
Questo significa non essere indifferenti a quanto accade nel mondo, intorno a noi, nella comunità. Prendere parte nella vita della comunità, e rispedire al mittente i discorsi improntati sull’odio e sulla paura, riconoscere e denunciare soprusi, sfruttamento, discriminazione, e scegliere di coltivare una cultura dell’accoglienza, della condivisione e della libertà, della diversità come ricchezza.
Cultura dell’accoglienza significa elaborare strumenti per riconoscere e sdoganare ogni forma di sessismo, razzismo e omofobia presenti nella società, trattando di questi temi con la cittadinanza e facendoli emergere nel dibattito pubblico.