Monza è ormai in una nuova fase di lockdown. Meno stringente, certo, ma questa volta la stangata arriva dopo mesi di strenua lotta in cui i cittadini hanno fatto ciò che era in loro potere per contrastare la diffusione del virus.

L’andamento dei contagi delle ultime settimane lasciava presagire con relativa sicurezza un irrigidimento delle misure di distanziamento sociale e dal 4 novembre è sembrato praticamente certo che, ventilata una divisione in tre aree di rischio del territorio italiano, la Lombardia sarebbe stata annoverata nelle zone rosse del Paese. Ciascun cittadino è testimone diretto o indiretto delle lunghe code per fare i tamponi, mentre le voci del personale medico dai reparti del San Gerardo prefiguranti uno scenario similare a quello di primavera raggiungevano amici, conoscenti e parenti tramite il passaparola.

Stupisce quindi la dichiarazione del sindaco Dario Allevi, che sostiene di non esser venuto a conoscenza degli ultimi provvedimenti del governo se non «pochi minuti prima»  del loro annuncio e che, in caso contrario, l’amministrazione avrebbe «potuto utilizzare meglio la giornata di oggi e di domani [N.d.A.: 4 e 5 novembre] per organizzarci».

Ciò che stupisce di queste affermazioni è il fatto che un primo cittadino, che dovrebbe essere uomo del suo tempo  capace di comprendere le implicazioni di ciò che nel suo tempo accade, si dichiari all’oscuro di avvenimenti che qualunque cittadino aveva già intuito, se non dati per certi, da almeno una settimana. E se pure la decisione fosse stata presa «col favore delle tenebre», l’ombra del sospetto di un nuovo lockdown avrebbe dovuto far capolino già da giorni nelle sale vuote del Comune.

Come si può dire che questo secondo lockdown sia arrivato a sorpresa?

Da settimane Monza rientra tra le province più colpite d’Italia da questa seconda ondata, nella regione (ancora una volta) maggiormente colpita del Paese. «Monza è il nuovo epicentro» del contagio, affermava lo stesso sindaco il 29 ottobre

Sempre Allevi il 3 novembre rilasciava un’intervista dai toni allarmanti in cui definiva la situazione monzese «drammatica»:  «abbiamo circa 50 ricoveri al giorno al San Gerardo, oltre alle altre persone che si recano al pronto soccorso ma che poi tornano al proprio domicilio.  Ci stiamo avvicinando al picco massimo dei ricoveri di marzo. Purtroppo 280 operatori sanitari sono a casa perché hanno contratto il covid per contatti familiari». Rispetto alla situazione lombarda, Allevi lucidamente affermava che «oggi quasi tutte le nostre province sono in zona rossa», salvo poi augurarsi di non dover ritornare in lockdown.

L’esperienza vissuta da altre province a poche decine di chilometri di distanza dalla nostra non sembrano aver lasciato traccia nella memoria dell’amministrazione, dimentica del fatto che le soluzioni, una volta che si hanno gli ospedali pieni, si riducono drasticamente e che oltre una certa soglia le misure di contenimento parziali non riescono a moderare la curva a sufficienza prima che gli ospedali si saturino completamente. Superati certi limiti nella capienza degli ospedali e nell’indice di contagio, il drammatico aut-aut dovrebbe essere ormai chiaro: chiudere gli ospedali o chiudersi in casa, con tutte le gravissime ricadute sociali che questo comporta. Ma gli enti locali, ancora una volta, si sono mossi tardi, troppo tardi, mentre i pronto soccorso di Milano e di Monza andavano in sofferenza (e i dati in merito erano accessibili). Allevi si è forse fatto ingannare dalle minimizzazioni del presidente Fontana e del sindaco di Milano Sala, che ancora una settimana fa ritenevano di non dover nemmeno parlare di lockdown. Ma la curva dei contagi già parlava per sé, e senza chiedere il permesso.

Il tempo per organizzarsi è ormai passato: come denuncia oggi dalle pagine de Il Giorno Monza e Brianza Davide Scorzelli, infermiere in terapia intensiva al San Gerardo e delegato Usb, «dispiace dirlo, ma se il San Gerardo riesce ancora a reggere e a garantire i servizi è solo per il sacrificio dei suoi lavoratori, di infermieri e medici. Perché non è cambiato nulla dalla prima alla seconda ondata: non c’è stata alcuna pianificazione né supporto per affrontare questi nuovi aumenti dei contagi e tutto dipende dai turni straordinari, dalla sospensione di riposi e ferie, dai trasferimenti a reparti Covid richiesti da un giorno all’altro al personale, fino anche all’uso di neolaureati mandati in corsia, magari a seguire due pazienti intubati, senza neppure un periodo di affiancamento»,  «ascoltiamo i dirigenti dare numeri ottimisti e confermare la preparazione del sistema quando noi, che siamo in reparto, ci troviamo nelle stesse difficoltà che abbiamo vissuto a marzo e aprile».  E parte del personale (a cui va tutta la nostra solidarietà e tutto il nostro sostegno, per quel che vale), oggi già carente, che ogni mattina si sveglia senza sapere in che reparto verrà mandato, potrebbe essere trasferito prossimamente all’ospedale covid di Rho Fiera.

Era in questi mesi, non due giorni fa, che ci saremmo dovuti attrezzare per fronteggiare una nuova ondata epidemica ampiamente preannunciata e per ridurre le possibilità di una nuova serrata, ovviamente nei limiti delle competenze del Comune. Invece ci si è limitati ad applicare i contenuti dei DPCM e delle ordinanze regionali (queste ultime talvolta più simili a una variazione sul tema delle c.d. «misure per il decoro urbano» che a delle misure di contenimento di un virus), senza mettere in campo nuovi strumenti di tutela dei cittadini, senza lavorare adeguatamente sui trasporti pubblici monzesi – e purtroppo o per fortuna non sapremo mai cos’avrebbe potuto allestire nottetempo l’amministrazione nelle 24 ore tra il 4 e il 5 novembre, se avesse avuto quel fatidico preavviso.